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martedì 9 dicembre 2014

SUL MOVIMENTO CECILIANO di Michele Bosio estratto da Piero Mioli (a cura di) L’organista dalle mille anime. Bossi concertista, compositore, didatta (1861-1925) con un riflessione su Tactus editore (1986), Bologna, Clueb, 2012



1. Il Cecilianesimo in Europa
All’interno della storia della musica occidentale – più precisamente della storia della musica sacra cattolica – si verificò, nell’ultimo quarto del Diciannovesimo secolo, un graduale passaggio che portò alla riforma del repertorio musicale legato alla Chiesa. 
Tale periodo, denominato in Italia riforma ceciliana, segnò il netto rifiuto di stili e forme musicali legate al mondo dell’opera lirica (melodramma) e imperanti per tutto l’Ottocento – tanto da dominare ampiamente anche la produzione sacra – in favore di un nuovo modo di comporre che guardasse ai modelli per eccellenza della musica da chiesa. Ovvero, al canto ufficiale della chiesa romana (il canto gregoriano) e alla razionale visione armonica tra testo e musica, incarnata dalla produzione di Giovanni Pierluigi da Palestrina e dalla Scuola romana. 
Nei paesi d’Oltralpe, soprattutto in Germania e poi in Francia, il Cecilianesimo incominciò a prendere piede molto prima che in Italia. La Bach Renaissence, avente i suoi prodromi nella pionieristica ripresa – definita a quel tempo come “operazione archeologica” – dellaMatthäus Passion BWV 244 di Johann Sebastian Bach da parte di Felix Mendelsshon-Bartholdy (Berlino, Singakademie, 11 marzo 1829), segnò in Germania un interesse “laico” – borghese – verso il repertorio ecclesiastico del Kantor, all’epoca quasi del tutto inedito. Anche se in realtà alcuni filosofi della musica, come Wilhelm Heinrich Wackenroder e Ludwig Tieck, si erano da tempo interessati alla polifonia sacra del Rinascimento; soprattutto Ernst Theodor Amadeus Hoffmann che riscoprì – oltre al sopraccitato Palestrina – figure allora dimenticate, per esempio Alessandro Scarlatti, Leonardo Leo, etc. trasformandole in mitiche icone protoromantiche.
In Francia, soprattutto grazie agli studi sul cantus planus condotti dai monaci dell’Abbazia di Solesmes – ricordiamo il diffusissimo Paroissien Romain (Liber usualis, 1903) preparato da Dom Moquerau – la musica sacra godette ampiamente dell’ispirazione gregoriana e conseguentemente del gusto per la modalità medievale; L’Orgue Mystique di Charles Tournemire (1870-1939) appare ancora oggi come il corpus organistico più completo ispirato al repertorio gregoriano proprio delle festività dell’anno liturgico. 


2. L’Associazione Italiana Santa Cecilia [A.I.S.C.] e il Motu proprio di Pio X
In Italia si verificarono alcuni eventi storici che segnarono la frazione di una maniera “mondana” del fare musica in chiesa – basti pensare, oltre che alle composizioni originali in stile operistico di Giovanni Morandi, Felice Moretti o Giovanni Quirici, alle Messe per organo di Carlo Fumagalli e Paolo Sperati composte su celebri motivi di Meyerbeer, Donizetti, Bellini e Verdi – in favore di uno stile autenticamente sacro. Nel 1877 lo studioso di musica sacra e canto gregoriano sac. Guerrino Amelli (1848-1933) fondò a Milano la rivista «Musica Sacra», tre anni più tardi nacque anche l’Associazione Italiana Santa Cecilia (di cui lo stesso Amelli fu il primo presidente), mentre nel 1905 fondò a Montecassino il «Bollettino Ceciliano», organo mensile dell’A.I.S.C.. Ma l’atto che sancì definitivamente l’abbandono della musica teatrale dalle chiese fu il Motu proprio Inter Sollicitudines emanato il 22 novembre del 1903 – festività di Santa Cecilia – da papa Pio X. Con questo importantissimo documento si fissarono ufficialmente e in maniera particolareggiata diverse norme – un vero e proprio codice che regolamentava la composizione ed esecuzione della musica in chiesa – come prima d’allora mai era avvenuto. Appare chiaro che il Motu proprio non fu scritto dall’oggi al domani, ma richiese alcuni anni di incubazione in cui videro la luce alcune Associazioni Ceciliane (pensiamo ai celeberrimi ceciliani di Ratisbona, riunitisi nel 1868 attorno allo studioso Franz Xaver Witt, lo statuto dei quali fu avallato da papa Pio IX due anni più tardi), nonché congressi di musica sacra animati da illustri personaggi del mondo europeo, musicale e religioso. Ed è altrettanto chiaro che la situazione musicale non cambiò immediatamente, è però innegabile che vi fu una vera e propria “rottura”.


3. Modus operandi
I ceciliani cominciarono a mettere al bando il repertorio organistico ottocentesco costituito soprattutto da pezzi riecheggianti ritmi di polke valzer e mazurke, aventi spesso la forma di sinfonie d’opera, romanze e cavatine. Lo stesso successe per le messe, gl’inni e i vespri – composti dando grande rilievo al canto solistico e alla strumentazione bandistica – tenendo quasi per niente conto del Testo sacro. Gli interminabili «Vesperoni», ai quali accorreva un gran numero di persone spinte dall’occasione di potersi godere gratuitamente un chiassoso ‘concerto sacro’, vennero accorciati e disciplinati nella parte musicale. Il canto gregoriano smise di essere tonalizzato e normalizzato ritmicamente, venne abbandonata la lacunosa Editio Medicaea stampata dal Pustet, si promossero invece le edizioni cosiddetteTipiche, ovvero stampate dalla Typographia Polyglotta Vaticana, anch’esse avallate da un altro Motu proprio di Pio X, questa volta sul canto gregoriano. 
Venne bandito dalla chiesa l’organico orchestrale, soprattutto le percussioni (timpani, grancasse, piatti, etc.), così come pure il canto solistico dal chiaro idioma melodrammatico. Al posto di questa musica praticata ampiamente da compositori del calibro di Ruggero Manna (1808-1864), Amilcare Ponchielli (1834-1886) e Vincenzo Antonio Petrali (1830-1889), solo per rimanere in ambito lombardo, si preferì il canto corale – gregoriano e polifonia cinque-seicentesca (o “neo-palestriniana”) – con l’accompagnamento sommesso e modaleggiante – all’occorrenza – del solo organo. 
Naturalmente, non si eseguiva solo “musica antica”, furono composte nuove opere, ma sempre ispirate alla tradizione polifonica o ai severi modelli d’Oltralpe (Palestrina per la musica vocale; Bach per la musica organistica, ma anche Mendelssohn e Joseph Gabriel Rheinberger; César Franck e Félix Alexandre Guilmant, solo per citare alcuni nomi).


4. La riforma dell’organo
Col riformare la musica sacra si finì, inevitabilmente, col riformare anche l’organo a canne. A quell’epoca una vera e propria orchestra, non tanto nel senso sinfonico del termine – anche alcuni strumenti francesi non furono esenti da effetti rumoristici e da compositori “alla moda”, come per esempio Louis James Alfred Lefébure-Wely (1817-1869) – quanto in quello bandistico. Gli organi italiani ottocenteschi – pensiamo soprattutto a quelli costruiti dai Serassi di Bergamo – erano dotati di registri quali corni, cornetti, clarinetti, ottavini, timpani, e di accessori quali campanelli, campane, piatti, grancassa con effetti di rullo di timpani. Tutti questi orpelli vennero abrogati e sostituiti da registri gravi e solenni come i fondi a misura larga e gli eterei registri violeggianti. La morfologia dell’organo italiano ottocentesco – di solito a una tastiera con «registri spezzati» tra bassi e soprani, pedaliera di ridotta estensione e fonica bandistica – venne definitivamente abbandonata.
La Riforma – cominciata, come s’è detto, verso la fine dell’Ottocento – poteva vantare una vasta attuazione già prima della fine della prima decade del Ventesimo secolo. Non si eseguiva quasi più musica di stampo melodrammatico e non si costruivano più strumenti bandistici; tuttavia come in ogni momento di passaggio non si ebbe una rottura assoluta tra uno stato di cose e un altro, ma vi furono tratti di propedeutica continuità.


5. Vincenzo Antonio Petrali: il precursore
L’atteggiamento di un grande compositore che visse in pieno Ottocento e fu impiegato – sia come organista che maestro di cappella – presso grandi cattedrali italiane, appare un caso emblematico di quanto appena affermato.
«Il principe degli organisti italiani» – definito così dal famoso critico Filippo Filippi – aliasVincenzo Antonio Petrali da Crema, compose un gran numero di brani per coro soli e orchestra, dal chiaro stile operistico; influenzato dalla frequentazione di partiture operistiche rossiniane, donizettiane, verdiane e meyerbeeriane. Egli stesso fu un discreto operista con al suo attivo ben quattro opere liriche. Compose e ridusse per banda un discreto numero di brani, molti dei quali provenienti dal mondo dell’opera, ma il campo in cui eccelse fu quello organistico. In particolar modo si distinse per il proprio estro improvvisativo, sempre perfetto nella forma. Egli era in grado di produrre estemporaneamente anche composizioni di largo respiro, non solamente versetti in alternatim come era richiesto all’organista di chiesa.
Il suo stile continuò quello inaugurato da Felice Moretti, meglio conosciuto come padre Davide da Bergamo. Non ci si deve quindi stupire se il venticinquenne Petrali venne eletto dagli organari Serassi di Bergamo – gli stessi che realizzarono per la basilica di Santa Maria di Campagna a Piacenza, dove era organista padre Davide, un grandioso strumento ricco di tutti gli effetti rumoristici più roboanti e teatrali dell’epoca – come il loro collaudatore ufficiale. Le forme musicali predilette dal Petrali furono quelle vicine al teatro, alle quali aggiunse un particolare tocco proveniente dallo studio del Classicismo viennese. Ma tra gli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento sentì l’esigenza di disciplinare la sua creatività verso uno stile più grave e «legato», lontano dall’influsso “mondano”. Anche la fondazione di «Arpa Sacra» – rivista di musica sacra fondata nel 1886 insieme al collega Giuseppe Arrigo (1838-1913) – permise a Petrali di pubblicare le proprie opere liturgiche scritte per l’organo non più di stampo bandistico e incompleto per le richieste dell’epoca, bensì per uno strumento austero, grave e solenne in cui potessero armoniosamente risuonare Ripieno, ance, fondi e registri violeggianti.
A metà Ottocento sarebbe stato impensabile che un artista estroso come il Petrali – famoso in ogni dove per la capacità d’infiammare l’animo degli uditori mediante mirabolanti collaudi d’organo ricchi di effetti plateali come tempeste, temporali e quant’altro – solamente vent’anni più tardi (1877) avrebbe accompagnato la schola cantorum diretta da Guerrino Amelli – ricordo primo presidente dell’A.I.S.C. – nel Duomo di Bergamo. Ancora, che dieci anni più tardi (1880) sarebbe stato componente della Commissione per la revisione dei progetti d’organo al Primo Congresso Cattolico di Milano. Non solo, che egli stesso proponesse lo studio coscienzioso del canto gregoriano e della letteratura d’Oltralpe (addirittura mise in repertorio – essenzialmente formato da proprie composizioni – musiche di Bach e di Händel!). 


6. I padri riformatori e l’astro lucente Marco Enrico Bossi
Ma il vero padre della riforma dell’organo italiano fu Filippo Capocci (1840-1911), di una decina d’anni più giovane del cremasco e operante a Roma. Un interprete attento all’esecuzione di letteratura classica: Bach, Händel, ma anche Buxtehude e Couperin – ai quali accostava musiche del collega Alexandre Guilmant, con cui inaugurò i primi esempi di organi riformati in Italia – e naturalmente proprie composizioni, rigorose nella forma e nell’impostazione, sovente con echi mendelssohniani, sempre cantabile.
Soprattutto è grazie alla successiva generazione di compositori che sia la composizione sia la tecnica organistica vennero uniformate ai modelli, ancora una volta, transalpini. Luigi Bottazzo (1845-1924), Oreste Ravanello (1871-1939), ma principalmente Marco Enrico Bossi (1861-1925) per l’organo; Giovanni Tebaldini (1864-1952) e Lorenzo Perosi (1872-1956) per la musica corale – solo per citare i nomi che hanno varcato i confini nazionali ed europei – hanno creato con il loro modus operandi un concetto di musica sacra capace di seppellire definitivamente il ricordo (non proprio lontanissimo) della musica ampiamente praticata e apprezzata nel corso del Diciannovesimo secolo.


7. Marco Enrico Bossi «organista principe» 
Nel 1890 Bossi vinse il concorso per la cattedra di organo e di armonia al Regio Conservatorio di Napoli, dove soggiornò con la famiglia per cinque anni; e proprio da Napoli si batté per ottenere riforme tecniche nella costruzione degli organi, affinché si potesse far conoscere anche in Italia la grande letteratura organistica tedesca e francese – come s’è detto – a quel tempo impossibile da eseguirsi sugli strumenti “nostrani” dalla fisionomia sostanzialmente bandistica. Il Metodo Teorico-Pratico per Organo op. 105 – redatto assieme al Tebaldini, che curò la parte relativa al canto gregoriano e alla polifonia – venne pubblicato, a partire dal 1893, in dispense annesse al periodico «Musica Sacra». Esso divenne il primo mezzo di omologazione per lo studio dell’organo mai apparso prima d’allora in Italia, in grado di fornire agli organisti una visione completa del loro strumento, sia dal punto di vista culturale che da quello tecnico-interpretativo. 
Fu soprattutto grazie alle idee riformatrici e ai diversi contributi teorico-musicali creati con passione e competenza da Marco Enrico Bossi che – nel corso di poco più di un trentennio – il Regio Decreto n. 108 del 2 marzo 1889 che approva i programmi per gli esami di licenza e di magistero nei conservatori ed istituti musicali venne superato dal Regio Decreto n. 1945 dell’11 dicembre 1930, in cui furono approvate le norme per l’ordinamento dell’istruzione musicale e i “nuovi” programmi d’esame. Nacque l’iter di studi del corso di Organo e Composizione Organistica così come lo conosciamo oggi, valido ancora per i corsi tradizionali di strumento. Non va dimenticata, inoltre, la figura chiave del giurista napoletano Emanuele Gianturco (diplomatosi in Composizione presso il Conservatorio della sua città) – ministro della Pubblica Istruzione tra il 1896 e il 1897 – molto vicino alla poetica del compositore salodiano. Ricordiamo anche che il Nostro, tra il 1916 e 1922 – quando fu direttore del Liceo Musicale “Santa Cecilia” di Roma – entrò a par parte della Commissione permanente presso il Ministero della Pubblica Istruzione per l’Insegnamento della Musica. 
Durante il suo ampio compasso creativo, Marco Enrico compose un gran numero di musica di tutti i generi, si contano circa duecentoquarantatré composizioni numerate, tra edite, inedite o perdute. Naturalmente la sua produzione fu per la maggior parte legata all’organo, con circa trenta numeri d’opera per organo solo, la maggior parte dei quali costituiscono le colonne portanti del repertorio organistico italiano.
Per ottenere le sopraccitate importanti conquiste e molte altre ancora si dovette percorrere una lunga e tortuosa strada di riforma dell’organo ottocentesco, la cui estetica alla Prima Adunanza Organistica di Trento (1930) – dove si fece il punto della situazione italiana (sfortunatamente senza l’autorità di Bossi, scomparso soli cinque anni prima) – era stata completamente soppiantata da costruttori del calibro dei Vegezzi-Bossi di Torino, dei Mascioni di Cuvio (Va) e dei cremaschi Inzoli e Tamburini, solo per citarne alcuni. Il discorso potrebbe continuare ancora, ma dobbiamo necessariamente fermarci, dicendo in conclusione che anche al nuovo modello di organo italiano non si giunse dall’oggi al domani, ma vi furono – come per la musica – continuità/rotture incarnate da figure come quelle dei Locatelli di Bergamo, eredi dei Serassi – particolarmente apprezzati dal Petrali – e soprattutto dei Bernasconi – prediletti da Marco Enrico Bossi – insieme all’insuperabile Carlo Vegezzi-Bossi (1858-1927).