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sabato 17 aprile 2010

Marco Enrico Bossi secondo Andrea Macinanti - conversazione con lo specialista bolognese, interprete dell'opera omnia per organo -


Andrea Macinanti e Michele Bosio



Maestro Macinanti, potrebbe spiegarci brevemente l'importante ruolo ricoperto da Marco Enrico Bossi all'interno della storia della musica italiana del novecento storico?

Posta così, la domanda porta ad una risposta deludente: se si esce dal contesto organistico, Bossi non fu un innovatore. Fu fedelissimo alla tradizione, guardò con diffidenza le avanguardie (lo stesso Respighi lo irritava), osservò con intelligenza profonda quanto si faceva oltralpe e tardò a lasciarsi andare al suo particolarissimo stile che purtroppo non poté sviluppare morendo nel sua piena creatività. Fu fedele scopritore del passato, si pensi alla Missa pro Defunctis op. 83, in stile palestriniano e si cimentò in tutti i generi musicali tranne in quello del quartetto. Tuttavia, la sua musica rivela a chi la sta scoprendo, eseguendo ed ascoltando senza falsi pregiudizi, valori di grande compostezza formale, sapiente costruzione e italianissima cantabilità.



Come è nata l'idea di dedicarsi all'edizione critica dell'opera omnia per organo di Bossi?

Ho sempre cercato di dare il mio modesto contributo alla musica organistica italiana nata tra l'8 e il 900, ovvero di quel periodo di transizione considerato a pieno torto «critico» o peggio «di decadenza». Sin da giovane ero assolutamente convinto che, ben oltre le miriadi di versi e versetti con cui si annoiava il pubblico dei nostri concerti organistici e ben oltre le pittoresche musiche di sapore teatrale con cui si tentava di divertirlo, si dovesse far risuonare una produzione sapiente e di alto contenuto musicale. Mi lasciai conquistare dalla musica di Bossi e da quella dei grandi della sua generazione (Respighi, Perosi, Ravanello, Matthey, Yon…) e, a partire dai primi anni novanta, mi ci dedicai quasi totalmente. L'idea di redigere un'edizione integrale delle opere per organo bossiane, nacque dalla difficile reperibilità di molti brani, dalla necessità di scoprire le molte pagine inedite e soprattutto dall'impulso vitale e coraggioso dell'editore Carrara che fu il primo a volere, a pianificare quest'opera estremamente complessa. Il sesto volume appena uscito, chiude il ciclo delle opere originali. Ora si continua con le trascrizioni, le opere per organo e orchestra, per voci e strumenti e organo e per harmonium.



Su quali testimoni musicali e su quali fonti storiche vi siete basati?

Abbiamo utilizzato esclusivamente partiture a stampa appartenute al Maestro, colme di sue annotazioni di diteggiatura, pedaleggiatura, registri, correzioni e annotazioni diverse. Le abbiamo comparate con i manoscritti realizzando una complessa ma avvincente lettura sincretica. Si sono pubblicati tutti gli inediti e presentate tutte le fasi di «costruzione» di ogni singolo brano, mostrandone in apparato critico, gli abbozzi e i rifacimenti.



Potrebbe parlarci dello strettissimo legame tra la musica di Bossi e gli strumenti per i quali fu pensata?

Il mondo sonoro di Bossi è legatissimo a quello dell'organo italiano. Egli fu sempre fedele alle caratteristiche della nostra scuola organaria classica (in particolare alla purissima voce del ripieno) esigendo dagli organari che ne condivisero la carriera (in primis il supremo Carlo Vegezzi-Bossi), innovazione e progresso sì, ma sempre fedeltà al nucleo primigenio della nostra scuola. Ecco perché la musica organistica di Bossi è «italiana» come quella di Franck è «francese» o quella di Reger è «tedesca». E' un repertorio che vive di un particolare timbro, di una specifica pronuncia, come nel caso del lied lo è la lingua tedesca. Chi non la possiede come idioma materno, può avvicinarsi al suono richiesto da compositori, ma non ottenerlo del tutto.



Sembra strano constatarlo, ma ha fatto davvero fatica nella scelta degli organi adatti all'esecuzione della musica di Bossi, perché oggi pare ne esistano pochi esemplari in stato di totale autenticità...

Si è detto milioni di volte che i cosiddetti ceciliani hanno distrutto gli organi antichi. In parte è vero perché l'ansia di riforma non si è quasi mai espressa col nobile indirizzo che avevano ad esempio dato Bossi o Perosi: tenere intatto l'antico e… costruire qualcosa di nuovo. Si è modificato, sostituito, sfigurato… Ma bisognerà cominciare ad avere la serietà di dire che in tempi recenti - grazie al diligente lavoro, quasi da «pulizia etnica», di iconoclasti, cosìddetti filologi! - si sono letteralmente «buttati via» decine di organi ceciliani. Ci resta un'infinità di organi antichi, di ogni epoca e di ogni scuola, ma di organi costruiti tra i due secoli, intatti e preservati da stupide «barocchizzazioni» o elettrificazioni delle trasmissioni, ne restano pochissimi. A tre tastiere, sono forse solo 4-5 su tutto il territorio italiano: tra essi il superbo Carlo Vegezzi-Bossi (1902) della Cattedrale di Aosta. Una vergogna!

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